Secondo l’European Society of Cardiology e l’European Society of Hypertension (ESC/ESH), l’ipertensione arteriosa (IA) è definita dal riscontro di una pressione sanguigna sistolica di almeno 140 mmHg e/o di una pressione diastolica di almeno 90 mmHg1.
ssa rappresenta una problematica comune all’interno della popolazione generale adulta: si manifesta in circa il 30% delle persone e raggiunge il 90% se si considera il sottogruppo di pazienti con malattia renale cronica (MRC)2. In tale categoria di soggetti, l’incidenza dell’IA aumenta con la gravità della patologia nefrologica3.
La patogenesi dell’IA nei pazienti con MRC è complessa e multifattoriale3. e due condizioni, infatti, sono strettamente interconnesse, dal momento che l’IA costituisce sia una causa che una conseguenza della MRC, contribuendo alla sua progressione2 e accentuando il tasso di declino della filtrazione glomerulare3.
I vasi sottoposti a un’alta pressione sanguigna, infatti, possono restringersi riducendo il flusso ematico; in questo modo i vasi si indeboliscono e si danneggiano a livello di tutti i distretti corporei, reni inclusi4. Ciò, nel lungo periodo, mina la corretta funzionalità dei vasi renali rendendo i reni non completamente efficienti nel filtrare le sostanze di rifiuto e i fluidi in eccesso dal corpo, i quali possono aumentare ulteriormente la pressione sanguigna, creando un ciclo pericoloso in cui l’IA si auto-alimenta e provocando altri danni che possono portare alla MRC4. L’IA, perciò, viene considerata un fattore di rischio indipendente per l’insorgenza di insufficienza renale3 mentre un suo controllo può rallentare il declino del tasso di filtrazione glomerulare, ritardare la progressione a insufficienza renale e ridurre l’incidenza di malattie cardiovascolari. L’IA e la MRC, infatti, rappresentano due fattori di rischio indipendenti per le malattie cardiovascolari, che risultano essere tra le comorbidità di maggiore rilevanza nella MRC. Se IA e MRC sono co-presenti, il rischio di mortalità per malattia cardiovascolare risulta essere sensibilmente maggiore2.
Circa il 25% dei pazienti ipertesi essenziali sono sodio-sensibili, ovvero, rispondono all’assunzione di un carico salino con un aumento della pressione arteriosa5.
Il fenomeno dell’ipertensione sodio-sensibile risiede nell’interazione tra diversi meccanismi che si verificano a livello renale e sistemico6. In particolare, si verifica ritenzione tramite l’attivazione del recettore mineralcorticoide indipendente dall’aldosterone, attraverso Rac1. Inoltre, viene prodotta una risposta infiammatoria mediata dalle cellule T helper 17 e dalle citochine che aumentano il trasporto distale di sodio6.
Nel caso specifico dei pazienti con MRC, la patologia è spesso accompagnata da proteinuria, per cui la plasmina contenuta nelle urine è in grado di attivare i canali di sodio nell’epitelio. La malattia renale cronica, quindi, causa variazioni sia locali sia sistemiche che complessivamente promuovono il riassorbimento distale del sodio nei nefroni e quindi l’insorgenza di ipertensione sodio-sensibile6.
Le strategie terapeutiche per l’IA sodio-sensibile sono rappresentate sia da interventi mirati al cambiamento nello stile di vita, che dalla terapia farmacologica. Tra i primi, che devono essere perseguiti indipendentemente dal trattamento farmacologico ipertensivo, si ricordano:
Prove coerenti suggeriscono che sia singoli nutrienti, come il sodio e il potassio, che diversi modelli dietetici come la dieta Dietary Approaches to Stop Hypertension (DASH), sono direttamente associati alla riduzione della pressione arteriosa8.
Il controllo dell’apporto orale di sodio è un intervento complesso da mettere in pratica, poiché a livello globale la popolazione ne consuma una quantità eccessiva rispetto alle raccomandazioni fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e i pazienti con malattia renale cronica non fanno eccezione6.
Circa l’80% del sale consumato con la dieta, infatti, proviene in forma nascosta dai prodotti industriali in cui il sodio è aggiunto con lo scopo di renderli più palatabili e di migliorarne la conservazione6. Inoltre, i pazienti con MRC possiedono un’aumentata soglia del senso del gusto e, pertanto, tendono a percepire gli alimenti come insipidi6, rischiando di condire eccessivamente le pietanze.
Dal momento che il sodio assunto con la dieta deriva in larga parte da cibi processati, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha intrapreso delle iniziative per ridurre il contenuto di sodio nei cibi industriali come una delle priorità principali per combattere le malattie non trasmissibili8. Nel corso del tempo, tuttavia, il contenuto di sodio degli alimenti confezionati non è variato in modo significativo, continuando a costituire una problematica importante da affrontare6.
Le linee guida 2020 della National Kidney Foundation’s Kidney Disease Outcomes Quality Initiative (KDOQI) raccomandano, relativamente al rapporto tra assunzione di sodio e pressione sanguigna, di limitare l’assunzione di sodio in adulti con MRC negli stadi 3-5 (1B), in dialisi (1C) o post-trapianto (1C) a meno di 100 mmol/die (ovvero 2,3 g/die) per ridurre la pressione sanguigna e migliorare il controllo volumetrico10.
La limitazione dell’apporto alimentare di sodio, inoltre, può migliorare la proteinuria10.
I prodotti aproteici possono contribuire a contenere il rischio di un eccessivo intake di sodio nei pazienti con malattia renale cronica in fase conservativa poiché consentono di apportare calorie (lipidi e glucidi), a discapito di proteine, fosforo, potassio e sodio9.
Inoltre, è possibile consigliare ai pazienti strategie finalizzate alla riduzione del consumo di sodio favorendone la consapevolezza come:
Tipologia di prodotto |
Contenuto in sodio |
Contenuto in sale |
Ad alto contenuto in sale |
> 0,4-0,5 g/100 g |
> 1-1,2 g /100 g |
A medio contenuto in sale |
da 0,12 a 0,4-0,5 g/100 g |
da 0,3 a 1-1,2 g /100 g |
A basso contenuto in sale |
< 0,12 g/100 g |
< 0,3 g /100 g |
Educazione alimentare: cosa possono fare nefrologo e dietista per pazienti e caregiver
L’aderenza alle prescrizioni dietetiche è un elemento critico tanto quanto l’aderenza alle terapie farmacologiche. Per questo motivo è importante aumentare l’empowerment dei pazienti, educandoli a comprendere l’importanza dei programmi dietetici9.
Il nefrologo è al centro delle attività di gestione del paziente, assieme ad altre figure professionali di supporto12.
Il dietista, in particolare, è il professionista sanitario che collabora per realizzare gli interventi nutrizionali più efficaci e sicuri per il paziente, ne effettua la valutazione nutrizionale ed elabora un piano dietetico personalizzato. Inoltre, interagisce con gli altri membri del team (psicologo, fisioterapista) per identificare e promuovere i fattori individuali che possono favorire l’adesione al piano terapeutico complessivo9.
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